venerdì 29 novembre 2013

Il potere della fotografia

Mi sono chiesta per giorni quale fosse il modo migliore per inaugurare questa sezione del blog, interamente dedicata alla “fotografia”, una materia sin dai suoi albori oggetto di infinite discussioni, teorie, controversie e considerazioni. Essa rappresenta invero un tema vastissimo, meritevole di riflessioni e approfondimenti, soprattutto al giorno d’oggi, dove la diffusione del digitale ha reso la fotografia non soltanto un mezzo accessibile pressoché a tutti, esperti o dilettanti, ma anche una presenza costante nella nostra quotidianità (vedi la condivisione sfrenata di immagini sui social network, il proliferare di applicazioni dedicate al fotoritocco per gli smartphone, la possibilità di scattare un numero illimitato di immagini in assenza di un supporto materiale come la pellicola) e che ha finito per influenzare il modo stesso di approcciarsi alla vita.
 
Il caso ha voluto che il numero di ottobre della rivista National Geographic presentasse in allegato il catalogo della mostra in corso a Roma al Palazzo delle Esposizioni (“La Grande Avventura”, 28 settembre 2013 – 2 marzo 2014) e fosse corredato di interessanti articoli aventi per tema il potere della fotografia. Da qui ammetto dunque di aver tratto un importante spunto di riflessione per scrivere il mio.



Qual’è dunque – quali sono – “i poteri” della fotografia?

Il primo, il più evidente, è la sua innegabile capacità di congelare momenti irripetibili - e con essi, tutto ciò che è “partecipe” di quel momento - persone, luoghi, eventi destinati a non ripetersi, a scivolare nel ricordo: frammenti di vita soggetti, come del resto la vita stessa, all’impermanenza, all’evanescenza, alla dissoluzione. Così i nostri album sono pieni di foto ricordo, testimoni di dolci memorie passate in cui spesso finiamo per crogiolarci nostalgicamente: quanti di noi non hanno mai scattato una fotografia con il deliberato intento di realizzare una cartolina-ricordo, pensando “questo è un momento da non dimenticare...” e prevedendo già il malinconico abbandono da cui in seguito ci saremmo lasciati avvolgere, posando lo sguardo su certe immagini?

Mi sono chiesta dunque se questo atteggiamento non possa forse contenere in sé, seppur in modo sottile, anche dei lati negativi: non saremo forse diventati incapaci di vivere pienamente il momento presente, dato che inconsciamente siamo portati a voler registrare e documentare ogni istante, ogni avvenimento in modo maniacale e compulsivo, per i “posteri”, per la consolazione dei noi del futuro? Certo è che esiste per contro una fotografia votata alla poetica dell’istante decisivo, quella di Cartier-Bresson per intenderci, dove essenziale è la capacità di sostituire il mirino al proprio sguardo, per riuscire così a cogliere in uno scatto un istante decisivo, che da allora in avanti resterà incorniciato e si ripeterà uguale all’infinito: questione di attimi, di impercettibili movimenti o espressioni del volto che l’occhio umano non sarebbe in grado di registrare senza il supporto del mezzo fotografico.
 
Henri Cartier-Bresson



Tuttavia la fotografia trasmette a mio parere un altro grande insegnamento: nel ritornare nello stesso luogo più volte - come fa notare il grande maestro del colore, Steve McCurry, costantemente alla ricerca dello scatto migliore – in presenza delle più disparate condizioni atmosferiche, stagionali o di luce, nella capacità di assaporarlo, gustarlo intensamente anche nelle diverse sfumature che lo caratterizzano, io intravedo un possibile ritorno al saper apprezzare in ogni suo mutamento, in ogni suo aspetto, nella sua totalità la vita stessa.


In quanto mezzo che contiene implicitamente la capacità di riprodurre fedelmente la realtà (non dimentichiamoci tuttavia che le immagini possono essere costruite, ritoccate), la fotografia permette di documentare, e quindi di denunciare o celebrare, di sensibilizzare in certi casi l’opinione pubblica: non a caso, infatti, la copertina del suddetto numero di National Geographic riproduce il famosissimo ritratto di Sharbat Gula, incontrata dal già ricordato Steve McCurry in un campo profughi del Pakistan nell’1984.



Sebastião Salgado, Genesis


Le fotografie dunque ci permettono di conoscere realtà lontane, spesso molto diverse, fino ad allora inimmaginate e da noi quindi inesplorate; ogni novità di qualsiasi tipo con cui entriamo a contatto, più o meno direttamente, può rappresentare a mio parere un ottimo spunto per l’arricchimento personale, per una riflessione profonda, ad esempio, sul senso della vita e delle altre esistenze che ci circondano, sulla convivenza nel mondo di realtà spesso agli estremi, sulle condizioni in cui versa il nostro pianeta: così mi perdo ad ammirare con trasporto le fotografie in bianco e nero di Sebastião Salgado, che con il suo progetto "Genesis" (da febbraio ai Tre Oci di Venezia) si è proposto di documentare ciò che nel mondo è ancora puro, selvaggio, incontaminato, e per questo bisognoso di protezione; mi ricorda molto il progetto “Mission héliographique” del 1851 - cui partecipò, tra gli altri, Gustave le Gray - il cui scopo era quello di documentare i monumenti francesi da salvare e restaurare. Oppure le fotografie di Tim Laman, dai colori brillanti, che corredano il servizio sugli uccelli del paradiso nel numero di National Geographic di dicembre 2012, e ancora mille altre foto che non possono non spingere a chiedersi: quanta bellezza è presente intorno a noi? – ma anche disastri, disperazione, guerre e dolori, cambiamenti climatici in atto e via dicendo.  


Gustave le Gray, "La Mission Héliographique", 1851


La fotografia, più della semplice parola scritta, può aiutare nella sensibilizzazione del mondo ai problemi che lo pervadono, la potenza di un’immagine è innegabile: se malgrado il progressivo disfacimento dei rapporti tra l’uomo e i suoi simili, tra l’uomo e la natura, continuiamo a meravigliarci con stupore infantile dinanzi a certi scatti che celebrano le bellezze – o condannano le atrocità – del mondo, è auspicabile intravedere in questo atteggiamento una possibile strada verso la riconciliazione con la natura, l’uomo, la vita stessa.
 
 
 


Steve McCurry documenta le conseguenze della guerra del Golfo
(anche sulla natura), nel 1991